1936 –1938 Tempo d'imparare l'arte

Luciano è troppo preso dalla novità della scuola, dai compiti a casa, dall’impegno con cui segue la maestra. Non può dedicare attenzione agi avvenimenti politici interni ed esterni che pur in quegli anni si sviluppano convulsi. 

Mappamondo, bandierine e geopolitica

Tuttavia la scuola un po' sopperisce costringendo i ragazzi a seguire le battaglie in Abissinia. Mettono le bandierine sulla carta geografica, man mano che le truppe del generale Badoglio avanzano. In casa si parla dell’Africa anche per un’altra ragione. Lo zio Daniele, uno dei fratelli della mamma - detto frer perché fa il fabbro ed il maniscalco - è partito per l’Africa. Il nazismo che nel frattempo si è rinforzato con la militarizzazione nel ‘36 della Renania, firma con l’Italia, ancora tutta esaltata dalla conquista dell’Impero, il trattato dell’Asse. Francia e Spagna sembrano andare in direzione opposta. Un Fronte Popolare con socialisti e comunisti vince le elezioni e va al governo sia in Spagna che in Francia. In gran Bretagna sale al trono Edoardo VIII. Queste novità tuttavia non dureranno a lungo. L’amore per la bella americana porterà lo stesso anno Edoardo a rinunciare al trono. 

Povero zio Daniele, classe 1911. Lui sarà costretto a vivere direttamente tutti i grandi avvenimenti che si svilupperanno sullo scenario geopolitico mondiale. Credo che n’avrebbe fatto ben volentieri a meno. Avrebbe preferito non conoscere altri continenti, ma rimanere a ferrare cavalli nel suo piccolo paese bergamasco. Anche Luciano, quando torna a Villa d’Adda dai nonni, sente con nostalgia la mancanza di quell’attività cui aveva assistito con interesse. Non vedrà più i cavalli o i muli o gli asini nel cortile attaccati alle inferriate della finestra in attesa, mentre lo zio batte sull’incudine un ferro di cavallo rovente di colore giallo-rosso. Non vedrà le scorie distaccarsi dal ferro battuto, mentre si appiattisce e s’incurva. Non vedrà fare con uno speciale attrezzo i buchi quadrati sul ferro - che ha ormai raggiunto la sua forma finale, ma che rimane molle come burro - da dove passeranno i lunghi chiodi che lo fermeranno nello zoccolo. Non sentirà più lo stridere della cheratina mentre fonde al contatto del ferro rovente per gli ultimi aggiustamenti di forma. Fermo il garretto stretto tra le gambe sopra un grembiule di cuoio, mentre il padrone del cavallo ed altri, amici e curiosi, cercheranno di tenerlo calmo.
In Spagna il generale Franco, arrivato a Burgos dopo un’insurrezione iniziata nel Marocco, istituisce un governo ribelle appoggiato da cattolici, monarchici, fascisti e nazisti. Cominciano i massacri e le uccisioni da ambo le parti. Garcia Lorca viene fucilato dai franchisti. Ha appena finito di pubblicare il suo ultimo dramma La casa di Bernarda Alba. Sarà uno dei primi spettacoli che vedrò al Piccolo Teatro di Milano all’epoca dell'università. 
Terminata l’impresa dell’Africa, zio Daniele sarà costretto a partire volontario per la Spagna, e Luciano a cambiare carta geografica e mettere le bandierine su nomi sconosciuti di paesi, come Malaga o Toledo in Spagna. Qualche anno dopo proverà brividi d’esaltazione patriottica e di sdegno per le infamie dei comunisti, nel rivivere al Cinema dell’Oratorio con l’Assedio dell’Alcazar le gloriose gesta delle camicie nere mentre resistevano nella for-tezza assediata dai barbari rossi. Nel ’40 nella Mostra del Cinema di Vene-zia, riservata all’Asse, il film di Genina riceverà il Leone d’Oro. 

Da grande, a Milano, avrò modo di aggiornare i miei ricordi di scuola visitando una famosa mostra di Picasso al Palazzo Reale. I volti urlanti, le mani spezzate in un tetro color cinerino racconteranno la tragedia di Guerni-ca dove gli aerei nazisti inaugurarono la tecnologia del bombardamento a tappeto dei civili. A Toledo ci sono andato per una rapida visita en tourist, to-gliendo un giorno dal viaggio d’affari, probabilmente per quel ricordo. In effetti l’Alcazar è ancora là che domina la città, ma più nessun ricordo dell'assedio. Per mantenere io il ricordo della visita, portai con me uno spadino dipinto che funge da tagliacarte ed un candelabro di legno che fa ancora mostra di se sulla mia scrivania, trasformato in portalampada. Quel candelabro mi ha in-segnato come si possa risparmiare su tutto. E’ dipinto in oro, ma solo su mezza faccia. Quella che normalmente era rivolta al muro, non è dorata.
In quegli stessi anni in Italia trionfano i telefoni bianchi e non solo nel cinema. In teatro Aldo De Benedetti mette in scena Due dozzine di rose scarlatte. 
In Francia il fronte popolare durerà poco più di un anno. Il sogno comu-nista ha modo invece di svilupparsi a fondo in Russia, dove Stalin sistema gli oppositori dando inizio alle purghe staliniane. Processi, deportazioni, con-danne. Per sua fortuna Massimo Gorkji muore a Mosca nel ’36. 
Destinato a resistere a lungo invece è Roosvelt, rieletto nel ’36 presi-dente degli Usa e poi di nuovo nel ’40. Un altro evento americano che durerà a lungo nel tempo è la pubblicazione dell’unico romanzo della Mitchell, Via col vento. Confesso di non averlo letto. Ma chi può dire di non avere visto il film? Un personaggio che riempirà le pagine dei settimanali rosa del dopo-guerra entra nella storia per la prima volta proprio in quell’anno. E’ Faruk che diventa re dell’Egitto, quando gli inglesi si ritirano limitandosi ad occupare militarmente solo il canale di Suez. 
Nel maggio del ’36 Luciano potrà partecipare alle grandi manifestazioni per la celebrazione per l’Impero, vestendo con orgoglio la divisa di Figlio della Lupa. Di quell'uniforme ricordo non tanto i calzoncini verdi e la camicetta nera, quanto la cintura che si allacciava passando nella fibbia attraverso le due gambe di una grossa M. 
Forte anche del trattato Antikomintern firmato nel ’37 con la Germania, il Giappone dal Manciukuo scende in Cina, occupa Pechino e da Shangai ar-riva a Nanchino. La Cina non si arrende e Chank Kai-Shek sposterà la capi-tale della resistenza a Chung King. Poco dopo anche il Duce aderirà al patto Antikomintern. L’asse Roma-Berlino diventerà un triangolo Berlino-Roma-Tokio. Tutto serve per aumentare le conoscenze geografiche di Luciano e dei suoi commilitoni. 
Di quegli avvenimenti nella lontana Cina, avremo io e mia moglie un racconto diretto, una bella sera dell’estate ’58 nei dintorni di Pittsburgh, da un erede di vecchi mandarini e dalla leggiadra moglie, mentre assaggiavamo le delizie della vera cucina cinese. Long Song Tong, cinese naturalizzato americano, grande ingegnere nucleare, ci descrisse la vita a Chung King, le atro-cità dei giapponesi, i continui spostamenti con l’avanzare della guerra. Long Song Tong sarà ospite a casa mia più tardi a Torino. I miei figli, allora piccoli, si ricordano ancora di quel viso gentile e sorridente, d’età indefinibile, con gli occhi a mandorla che li incanterà con giochi di carta. Gli avvenimenti anche molto lontani nello spazio e nel tempo a volte ritornano e ti toccano da vicino.

La radio era entrata in casa mia solo in quegli anni. Era una bella Radio Marelli. Una grossa scatola di legno di radica, con un frontale traforato da cui s’intravedeva una tela che nascondeva l’altoparlante. Tre manopole sotto un vetro illuminato con su scritto ben chiaro le varie stazioni. Una manopola per accendere e per il volume, l’altra per cambiare da onde medie, ad onde lun-ghe, ad onde corte. La terza per la sintonia. Allora per fortuna tutto era molto più semplice di adesso. A parte le scariche, sempre numerose, era facile sintonizzarsi su una stazione, radio Milano I, o Radio Roma II, o Radio Genova. Il loro nome era ben in evidenza. Con la manopola ci potevi girare attorno la lineetta verticale rossa senza dover subire, come capita ora, l'indisponenza di stazioncine che a grande volume si intromettono appena tu con cautela giri la manopola della sintonia. Il progresso è sempre progresso, si dirà. Anzitutto le dimensioni, non più quei cassoni di allora. Vi è la FM, la Modulazione di Frequenza, che prima non c’era. Chi sa più cosa sia od usa la AM anche se si trova ancora come surplus sugli apparecchi d'oggi? Vi sono migliaia di stazioni che si possono ricevere. Vi è la sintonia digitale, se uno è pronto a spendere un po' di più. Vi è l’RDS per seguire, se sei in auto, sempre la stes-sa stazione anche se cambia la frequenza, mentre ti sposti da un paese all’altro. Sarà. Eppure, vuoi mettere le care vecchie grosse, ingombranti radio di allora?
Nel ’38 Hitler mostra ormai senza più ritegno, quali siano i suoi sogni ambiziosi. Per essere sicuro di non avere fronde interne alla realizzazione del suo disegno di conquista violenta dello spazio vitale tedesco, assume di-rettamente il comando supremo delle forze armate. Invade ed annette l’Austria e si prepara ad allargare ad Est lo spazio vitale, sobillando in Ceco-slovacchia le rivendicazioni dei tedeschi nei Sudeti. 
La reazione delle democrazie occidentali è tiepida, grazie anche ai cambiamenti al governo in Francia con il conservatore Daladier ed in Inghilterra con il pacifista Chamberlain. Tutto si dovrebbe risolvere con trattative attorno al tavolo. Nel settembre del ’38 si tiene la Conferenza di Monaco da dove Mussolini tornerà dicendo di aver salvato la pace in Europa. A spese della povera Cecoslovacchia che verrebbe smembrata cedendo i Sudeti al Reich. Ma l’illusione non durerà molto. Nel marzo ’39 Hitler occupa la Cecoslovacchia e chiede Danzica alla Polonia. 

Nello stesso mese si conclude la guerra civile in Spagna con la vittoria di Franco. Qualche mese dopo lo zio Daniele può finalmente ritornare a ferrare cavalli, asini e muli a Villa d’Adda. Ma per quanto tempo? Quante volte, tornato sfibrato dalle varie guerre, sperduto in paesi lontani e sconosciuti, Russia compresa, dirà: “La classe del’11 è stata la più sfortunata di tutte. Tutte le ha fatte le guerre, proprio tutte.” Chissà se si sarà poi pentito d’avere anche lui dipinto sui muri del paese, nel ’30, quando andò assieme ai coscritti alla visita militare: “W il 1911, classe di ferro.” 
Grazie alla radio potevamo seguire le notizie del mondo. Forse sarem-mo vissuti più tranquilli senza radio, leggendo le notizie sul giornale o sentendole raccontare da quei pochi che il giornale lo comperavano e lo legge-vano. La radio annunciò nell'Aprile del ’39 che Mussolini aveva occupato l’Albania. Il nostro Re d’ora in avanti sarebbe stato Re d’Italia e d’Albania. Nel maggio dello stesso anno, la firma del Patto d’Acciaio. Nell’agosto, con una certa meraviglia dei grandi che non sapevano spiegarselo - ma non seppe spiegarselo neanche il Duce - l’incontro tra Ribbentrop, ministro degli esteri di Hitler, e Molotov (nome destinato a sopravvivere per via di una botti-glia), ministro degli esteri di Stalin, che firmano anche loro un patto. 
Il primo settembre la radio annuncia che le truppe tedesche hanno in-vaso la Polonia. E’ la guerra? Cosa dicono gli strateghi del caffè, o quelli dell’osteria, quelli che la sera sotto le finestre di casa mia si attardano a giocare alle bocce? Pensano forse soprattutto a come togliere di mezzo quella boccia che impedisce di fare il punto.

La Moneta ed il quaderno della spesa 

J.M. Keynes scriverà nel ’36 un trattato destinato a diventare famoso, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.
 Luciano fin da piccolo aveva imparato che niente si butta, che anche un centesimo può essere prezioso. Gli sghei, le palanche, i danè. Tanti nomi nei vari dialetti per una merce rara e preziosa. In quegli anni Luciano non è il solo a percepire l’importanza della moneta. A casa il valore del soldo lo de-duceva dallo sforzo necessario per convincere la mamma a dargli cinque centesimi per comperare una manciata di borole, parola milanese per indicare le caldarroste. Se aveva voglia di una mela, gli veniva dato un soldino - di quelli che ce ne vogliono venti per fare una lira - per andarla a comperare da Gigetto che teneva un carrettino in pianta stabile con un po' di frutta, proprio nella strada all’angolo con piazzetta San Lorenzo. Un po' più soldi gli veniva-no dati per delle commissioni dal droghiere o dal salumiere, non senza infini-te raccomandazioni di star attento ai soldi ed al resto, di non perderli. 
Molta gente del paese andava dai negozianti con un quaderno e faceva segnare. Poi una volta la settimana, quando arrivava la paga del marito, passava a saldare il conto. Qualche volta saltava alla prossima settimana, ed il droghiere o il macellaio, od il fruttivendolo, magari brontolando, chiudeva un occhio e continuava a far credito. In ogni casa vi erano una quantità di quei libretti, di vario colore o con una diversa etichetta. Uno per ogni negozio. Ma non a casa mia. I miei non erano certo ricchi, ma mio padre ci teneva, per quanto fatica facesse, per quanto dovesse rovistare nel borsellino, a mostra-re di non aver bisogno di credito. Era un artigiano affermato, cui non mancava niente. Al massimo, se mi mandavano per commissioni ed in quel momento non c’erano spiccioli in casa, mi diceva di dire che poi sarebbe passato papà o mamma. C’era sempre qualche cliente di mio padre con un conto in sospeso. Appena passava in negozio a saldare, subito qualcuno o lui o la mamma andava a saldare il debito. 

In ogni caso i rapporti del piccolo Luciano con i negozianti erano ottimi. Con tutti, ma specialmente con il sciur Brusa, il salumiere. Anche perché spesso la lista da ricordare delle cose da comperare era lunga e Luciano aveva altro per la testa. Ecco un ricordo di quelle corse per la spesa. 
"Un etto di salame cotto, un etto di burro, due saracche, un etto di quartirolo." Luciano ripeteva la lista della spesa per non dimenticare nulla, mentre con un piede dava un calcio ad un sasso fuori posto. Per andare da casa sua al salumiere vi erano due possibilità: la strada grande ed asfaltata o una stradina piccola con selciato di sassi. Dalla piazzetta S. Lorenzo si attra-versava la strada principale di Vimercate e subito nella stradina. Era circon-data da facciate di case senza finestre da una parte, da un muro dall'altra, alto che chiudeva il giardino pieno di conifere. Era il giardino della Villa del si-gnor Valloni, dove la sorella Lia trascorreva spesso i pomeriggi con l’amica Maria Rosa. Per quanto alto fosse il muro, si vedevano bene le piante. Anzi, una di queste lasciava scendere dei rami fino quasi all'altezza di un ragazzino come Luciano. Tra le foglioline piccole e verde scuro lucido, si intravede-vano delle bacche rosse. Con un salto Luciano riuscì ad afferrare la punta di un ramo e poi a tirarlo verso di sé finché con l'altra mano arrivò ad una delle bacche. La colse e l'assaggiò. Era dolciastra ed appiccicaticcia. N'avrebbe mangiato un'altra, ma il ramo nel frattempo gli era sfuggito di mano ed ora oscillava troppo alto. Meglio così. Da grande avrebbe saputo che la pianta era un tasso e che le bacche non sono proprio commestibili. Nel saltare per afferrare il ramo, i manici della sporta della spesa si erano sfilati dalla spalla e la sporta era caduta per terra. Una sporta fatta da piccoli triangoli di pelle di vario colore, quasi come il vestito d’Arlecchino, cuciti assieme, che ora si chiamerebbe lavorazione patch work, ma che allora denotavano semplicemente una borsa a buon mercato. Luciano si rimise la sporta sotto le ascelle e riprese a dare un calcio al sasso di prima e a rincorrerlo: "Un etto di salame cotto, un etto di burro, due saracche, un etto di quartirolo. " 
Più avanti la stradina immetteva in un'altra sempre risceu, ma più larga. Qui passavano delle donne in bicicletta. Meglio non calciare più sassi, tanto più che tutti lo conoscevano e qualcuno avrebbe potuto fare la spia alla mamma per via delle scarpe che si rovinavano, almeno a stare alle sue rac-comandazioni. "Un etto di salame..." Una scampanellata lo distrasse dai suoi pensieri. "Ciao Luciano, vai a far la spesa?". Era una voce di donna. "Salu-tami la mamma." Accidenti, ora aveva perso il filo. Un etto di burro.. No, era un etto di salame, due saracche... Ah, ecco aveva ripreso il filo, e canticchiò: "Un etto di salame cotto, un etto di burro, due saracche, un etto di quartirolo." 
Quando la strada girava e s’intravedeva la chiesa parrocchiale, Luciano si fermò a guardare una piccola corte triangolare delimitata da due facciate di casa con dei balconi a ringhiera. Ecco, in una di quelle era là che era nato. Non se lo ricordava direttamente, perché avevano traslocato che era ancora molto piccolo, ma glielo dicevano ogni tanto papà e mamma la domenica quando insieme passavano di là per andare a messa. Si fermò un momento a guardare la casa. Quando sarò morto, pensò, dopo essere stato famoso, metteranno una lapide, come quella che in una casa di Via Pindemonte ricordava il poeta che lì o era nato o vissuto, o solo soggiornato per una notte, chissà. In qualche modo aveva dato lustro al paese. Era stato così importan-te che avevano dato il suo nome anche alla strada oltre che al collegio Arci-vescovile. Sì una bella targa di marmo: "Qui nel 1929 ebbe i natali .... che ..." Sicuro poi che si trattasse di Pindemonte il poeta? Cosa diceva esattamente la targa… che diede lustro... cosa vorrà dire lustro... al casato, al paese ed all'Italia tutta... Sì, sì. Anche lui, Luciano avrebbe dato lustro...
Il negozio del salumiere, il sciur Brusa, era nella piazzetta di fianco alla chiesa parrocchiale. Svoltato nella piazza della chiesa, un ragazzo fa dondo-lare nella gran fontana una barca di carta. Luciano prende un sasso per terra e mira: “Colpita! Muori capitan Uncino.” La nave dei pirati affonda lentamen-te. “Chi è stato?” Marco, detto il grandone, inferocito, si gira. A Luciano rima-ne solo la fuga. 
La porta della torre campanaria è aperta e lui vi si rifugia. Il sagrestano lo riconosce. “Giusto, tu. Aiutami a tirare le corde delle campane per il ve-spro.” Luciano salta su una corda. Don. Il sagrestano sull’altra. Din. Don, din, don. Allarmi! Allarmi! Svegliatevi cittadini. Il Barbarossa sta per arrivare con i suoi lanzichenecchi. Allarmi! Don, din, don. 
Luciano esce dalla torre campanaria. Ecco si sente già il rumore dei cavalli con i cittadini in armi. “Avanti, avanti! Avanti miei prodi.” E’ tutto uno sferrazzare d'acciaio, un nitrire di cavalli uno... scampanellio di drin drin di biciclette. “Luciano, monta in canna! Vieni con noi a giocare al pallone.” “Non posso, vado dal droghiere. Zucchero, farina...” 
E’ ancora alta la polvere lasciata dai destrieri quando riesce a varcare la soglia del droghiere. 
Il campanello appeso alla porta suonò come sempre. A quell'ora non c'era nessuno in negozio, ed il sciur Brusa, seduto a sonnecchiare, fu contento di vedere la faccia di Luciano un po’ rubiconda, come del resto la sua. Era un tipo divertente il signor Brusa. Se affettava qualcosa ne provava sempre un po’ anche lui. E magari, se era in vena, ne faceva assaggiare anche al cliente. Se era un ragazzo come Luciano che gli era in simpatia, alla fine gli dava una caramella o un cioccolatino. "Allora, sentiamo cosa la mamma ti ha detto di comperare. Scommetto che ti sarai dimenticato qualcosa." "No, no, mi ricordo tutto. Ecco, un etto di burro, due saracche... un etto di ..." "Ah, ah - ridacchiò il signor Brusa - l'avevo detto che ti eri dimenticato qualcosa."
"No, no, ora mi ricordo. C'è un etto di quartirolo, anche." Meno male, per il si-gnor Brusa, che c'era il quartirolo. Il burro e le saracche non si potevano as-saggiare, ma il formaggio sì. "E poi, e poi?" "E poi... e poi basta." Luciano non era molto convinto non mancasse qualcosa, ma non gli riusciva di ricor-dare cosa altro...
"Scommetto che ti rivedo fra cinque minuti, con in più uno scapaccione da tua mamma, perché hai dimenticato qualcosa."
Non più oberato dalla preoccupazione di ripetere la lista Luciano tornò leggero e di corsa a casa. C'era, infatti, ancora tempo per giocare. Erano so-lo le sei di pomeriggio di un giorno di maggio, ed i compiti li aveva finiti. Entrò nella bottega di suo papà e da lì in cucina. Posò la borsa della spesa sul tavolo ed uscì. Dalla stanza da letto in cui si trovava la mamma, una voce lo inseguì: "Luciano, hai comperato tutto?"
Luciano era già fuori, nella corte della casa a cercare gli amici per giocare. Si guardò intorno. Nella piazzetta non vi era nessun ragazzo. Alla sua sinistra, nella stradina che portava alla vecchia chiesa di Santo Stefano, non c'era nessuno. Sulla panchina di porfido rosso, quella su cui suo padre batteva lo stoccafisso il giovedì pomeriggio, sedevano due vecchie signore che abitavano in quella casa. Avevano in mano i ferri di maglia e parlavano tra loro. In fondo alla piazzetta la strada principale del paese era attraversata da qualche rara auto, da molti in bicicletta e da qualche pedone. Di ragazzi nes-sun segno da quella parte. Non rimaneva che il portone che dava nella corte. 
Fu da quella parte che Luciano decise di andare. Anche nella corte nessun segno di vita, almeno nessuno di quei segni che interessavano Luciano. In realtà di vita ce n'era nella corte. Anzitutto si sentiva il rumore di una lima. Era il papà di Luciano che stava intervenendo per riparare qualche bicicletta. Nel cortile, contro il muro della casa vi erano appoggiate tre o quattro biciclette in attesa di riparazione. C’era il rischio che qualcuna aspettasse proprio lui, Luciano.

Palanche, giocattoli e gelati

Ma torniamo ai soldi, sempre argomento buono per imbastirci discorsi sia da parte dei grandi sia dei piccoli. Ed alcuni romanzi usciti in quegli anni ne confermano l'importanza. Nel 1936 John Dos Passos pubblica un roman-zo dal titolo Un mucchio di quattrini. Una visione diversa del mondo e del rapporto con i soldi la darà un anno dopo John Steinbeck con il romanzo Uomini e topi. 
Per parte mia davo importanza ai soldi soprattutto quando insistevo per averne per togliermi qualche desiderio. Anche se piccolo, non era facile ottenere i soldi necessari. Così occorreva sviluppare strategie di marketing op-portune. Pare che da piccolo ne avessi escogitata una che aveva il suo effetto. L’episodio non lo ricordo direttamente, ma mi è stato raccontato poi dalla mamma e confermato da mia sorella Lia. Ogni tanto venivo preso da forti dolori allo stomaco. In particolare dopo aver ottenuto diniego sul soldo per andare a comperare una pesca od una pera. Pare che dal dolore mi sdraiassi su due sedie. Cominciavo in cucina. Poiché nessuno sembrava darmi retta, spostavo le sedie sulla soglia tra la cucina e la bottega. Qui i lamenti aumen-tavano per superare il rumore della lima. Poi, se nessuno ancora interveniva, le sedie venivano spostate in avanti al centro della bottega. 
I lamenti crescevano di tono, finché qualcuno finalmente coglieva il disperato appello. Mio padre mi chiedeva se volevo un poco d’acqua. Scossa negativa di testa. Mi chiedeva allora se non era il caso di chiamare il dottore. Scossa negativa ancora più energica. Il povero padre non sapendo più a che santo votarsi, metteva una mano in tasca e ne estraeva un soldo che aveva già in precedenza preparato, quando faceva finta di non sentire la manfrina del lamento. Un soldo avrebbe fatto cessare il dolore? Io allungavo la mano sem-pre da sdraiato e facevo una faccia interrogativa. Chissà? Mio padre allora mi allungava la moneta di rame. Medicina miracolosa. Saltavo sulla sedia e correvo fuori da Gigetto. Tutto finito appena la pera o mela veniva presa a morsi. Ma anche con questo trucco non potevo esagerare. Non c’erano trucchi che tenessero per soddisfare i desideri che affollavano la mente quando mi fermavo a guardare la vetrina del negozio di giocattoli, lo stesso di cui varcavo la soglia solo per comprare con pochi centesimi le palline di creta. 
Per fortuna c’era Gesù Bambino che ci pensava lui a Natale. Ma questo valeva solo quando ero piccolo, prima di scoprire chi fosse in realtà. Pro-babilmente i genitori si sobbarcavano la spesa anche perché valeva la pena vedere come i piccoli fossero creduloni. Ad esempio, un anno Gesù Bambino mi portò un cavallino che sembrava vero e che forse veniva dal paese di Lilliput. Mangiava dei piccoli mucchietti di fieno che mio padre gli avvicinava al-la bocca. Poi dopo avere ruminato e fatto dei rumorini di pancia scaricava il risultato della digestione alzando la coda. Ma il comportamento avveniva solo se mio padre era là vicino. Io non riuscii mai, da solo, a fargli mangiare nien-te. E sì che provai anche con zollette di zucchero.
Un Gesù Bambino in carne ed ossa arrivò un giorno sotto forma di una vecchia zia di mia mamma, dama di compagnia di una vecchia contessa. Non si era mai vista prima. Mia mamma le mandava ogni tanto una cartolina a Milano per mantenere i collegamenti. Un giorno scese dal tram, attraversò il paese con due grossi pacchi e fece suonare rumorosamente il campanello della porta della bottega spingendo avanti i pacchi. Nei pacchi c’era una ma-gnifica bambola di porcellana con vestiti ottocenteschi, per mia sorella Lia, una scatola di soldatini di piombo ed una nave per me. Mai visto niente di simile. Saranno costati un occhio della testa, era il commento di tutti coloro che nei giorni seguenti poterono vedere i giocattoli. Invece era stata la vecchia contessa a dire alla dama di compagnia che poteva scegliere quello che voleva dai vari giocattoli che erano rimasti spersi per la casa. 
I soldatini di piombo rappresentavano una fanfara militare completa. Capobanda, tamburini, flauti, trombe, tromboni, grancassa, tuba, corni inglesi. Per fare le fusioni più precise, le figurine erano fatte a pezzi. Ad esempio le teste si potevano togliere dal collo, gli strumenti musicali solidali alle braccia si potevano togliere dalle spalle. Mi divertivo non solo a mettere in fila la banda ma anche a scambiare le teste e gli strumenti dei suonatori. Allora non sapevo neanche cosa volesse dire, ma erano pezzi da vero antiquariato, roba da asta di Christie’s. Peccato siano spariti nel nulla, forse persi in uno dei tanti traslochi voluti o forzati. 
La nave era altrettanto straordinaria, od anche di più ai miei occhi di bambino. Era di latta come usava allora. Pezzi di latta verniciati e tenuti insieme da linguette che si ribadivano dopo averle fatte passare in apposite asole. Dalla pancia della nave si apriva uno sportellone da cui usciva una specie di pontile con su un aereo. Da lì, aiutato da me, l’aereo poteva volare per la casa. 

I soldatini di piombo erano una rappresentazione del mito asburgico, della marcia di Radetsky, e forse rappresentavano la nostalgia della nobiltà milanese per il mondo ordinato dei discendenti di Maria Teresa. La nave era opera recente. Rappresentava una portaerei? Forse. Ma l’aereo era nasco-sto nella pancia. Forse era proibito persino pensare a realizzare portaerei come giocattoli dopo che Mussolini aveva strategicamente deciso che l’Italia tutta era una grande portaerei immersa nel Mediterraneo e che quindi era inutile dotare la flotta di portaerei. Così almeno ci dicevano a scuola. La mia portaerei non avrebbe in ogni caso potuto cambiare le sorti della battaglia della Sirti, perché nel frattempo l’avevo smontata. 
Era troppo facile e bello scoprire cosa ci fosse nell’interno di un giocattolo di latta. Bastava alzare con un temperino le linguette, toglierle dalle asole e mettere in fila i vari pezzi. Problema più difficile era fare la procedura inver-sa e ricomporre il tutto. Le linguette si rompevano facilmente. Si cercava allora di rimediare tagliando la lamiera con le forbici per fare nuove linguette in un posto vicino a quelle rotte, ma i pezzi non combaciavano più. Quella por-taerei finì presto a pezzi anche lei, come le rare automobiline di latta che qualche residuo Gesù Bambino mi aveva portato in regalo. 
Una visione più concreta dell’importanza dei soldi e non solo per com-perare dei regali, l’ebbi a Villa d’Adda da mia nonna Antonietta. Era la varietà suonante e corrente, come si diceva allora facendo rotolare per terra un soldino. Madre d'otto figli con un marito contadino, una pasta d’uomo, il nonno Battista, Antonietta era la vera regiura della casa. Teneva lei la cassa, una lunga calza nera di cotone come allora portavano le donne. Le calze di seta che si vedevano al cinema non erano ancora arrivate a Villa d’Adda. La calza era piena di monete di rame e di nichel e, poche, d’argento. La nonna teneva la calza nascosta in un segreto del comò. Il segreto non era poi tanto tale, perché tutti sanno che sotto l’ultimo cassetto vi è un fondo su cui si possono nascondere delle cose. Quel fondo nascondeva in autunno qualcosa per me più interessante della calza, su cui peraltro mai avrei potuto mettere diretta-mente le mani. Erano le nespole - quelle vere, non le giapponesi – che trova-vano in quel fondo di comò l’habitat ideale per maturare a poco a poco. An-che se il proverbio dice: col tempo e con la paglia…, in quel fondo di comò la paglia non era necessaria. Col permesso della nonna, aprivo il cassetto fino quasi ad estrarlo del tutto, allungavo la mano dietro al cassetto per esplorare il fondo, palpando le nespole ad una ad una alla cieca. Estraevo quelle morbide, che avevano assunto un colore marrone, la pelle liscia e sottile. La ne-spola in bocca si scioglieva dolcemente come miele. 
Il nonno Battista non maneggiava mai soldi, se non quelle poche palanche che la nonna gli dava la domenica perché si ubriacasse all’osteria. I soldi entravano in casa perché si vendeva il frumento o il granturco o l’uva fragola. L’altra uva era tutta utilizzata per fare un vino leggero, che facilmente si tramutava in aceto, anche se i miei zii non se ne accorgevano, o facevano finta di non accorgersene, e lo bevevano anche acidulo. Mio padre, da veneto amante del buon vino, storceva la bocca tutte le volte che un qualche zio scendeva in cantina con la brocca di ceramica bianca - su cui campeggiava in un bell’azzurro W Noé - e risaliva dopo aver spillato il vino direttamente dalla botte e soffiato via la fioretta indice che forse era tempo di usare quel vino per condire l’insalata. 

La vendita dei prodotti della campagna veniva fatta dai figli, all’epoca ormai tutti grandi. Il più piccolo, zio Luis, detto il Toletta, era appena tornato dal servizio di leva. Era tornato con grandi idee, fare il sensale di bestiame, cavalli e mucche. Per questo mestiere occorreva a volte disporre di soldi per fare qualche buon affare. Comperare con pochi sonanti e correnti un bel ca-vallo da vendere poi con calma ad un prezzo molto più alto. La nonna Anto-nietta, la regiura, era tuttavia più pronta ad incassare soldi da mettere nella calza che ad estrarne per rischiose avventure commerciali. Ricordo i litigi del Toletta con la madre e la fatica per farsi prestare dei soldi. Alla fine ci riusci-va. Ed ebbe ragione lui molto più spesso di quanto ebbe torto. Aveva una grande capacità di riconoscere un cavallo, forse anche per l’amore che nutriva per gli animali. Più che per gli uomini. Zio Luis sarà l’unico dei figli a non sposarsi. 
Vivevano allora in casa da scapoli, oltre a Luis, Pepp e Daniele, rispet-tivamente sensale, contadino e fabbro-maniscalco. Se queste erano le loro specifiche professionalità, si arrangiavano a fare anche altre cose. Tutto per aumentare il flusso di palanche da mettere nella calza nera di nonna Anto-nietta. Un’attività che gradivo molto era quella di gelataio. Avevano compera-to un'imponente macchina che assomigliava ad un grande mastello di legno, del tipo di quello che la mamma di Luciano usava per il bucato e per fare il bagno ai figli, oltre che a papà e a lei stessa. All’interno del mastello vi era un cilindro di rame stagnato internamente in cui si versava la crema. Tra il cilindro ed il mastello vi era un’intercapedine che veniva riempita con una misce-la di ghiaccio e sale. Da un motore elettrico posizionato in verticale sopra il cilindro scendeva un albero che terminava in una pala. Acceso il motore, la pala girava e mescolava la crema che nel frattempo grazie al freddo che pro-veniva dalla miscela di sale e ghiaccio cominciava a raffreddare e a densificare. Verso la fine, quando il gelato prendeva forma, uno dei miei zii con una pala di legno mescolava lui stesso, contrastando, completando, rifinendo l’azione fatta dalla pala mossa dal motore. Ogni tanto con un piccolo cuc-chiaio piatto toglieva dalla pala un po' di gelato e lo assaggiava. In quei mo-menti io ero sul posto e volentieri fungevo da assistente assaggiatore. 
Occorre dire che la funzione d'assaggiatore, magari non richiesta, la svolge-vo anche prima. La crema, prima di venire versata nella gelatiera, doveva essere preparata. Si partiva da ceste piene d’uova, non da polverine come si usa oggi dì. Si rompevano in una calderina di rame stagnato - ben più grande di quella che veniva usata ogni giorno per la polenta - e si mescolavano a lat-te e zucchero. Poi si metteva la calderina sul fuoco del camino. Ogni tanto la crema andava assaggiata per giudicare della cottura. Io cominciavo ad as-saggiarla ancora prima di metterla sul fuoco. Poi ancora prima che comin-ciasse a bollire. Non ero mai convinto che tutto andasse bene e mi avvicinavo molto di frequente con un mestolo per estrarre un campione da sottoporre al mio gusto infallibile. Al termine, mentre la crema rimaneva nella calderina posata sul pavimento a raffreddare, continuavo a verificare che non cam-biasse di sapore. Quando era il nonno l’incaricato di mescolare la crema sul fuoco, tutto filava liscio, dati i nostri rapporti. Se invece era uno degli zii, ogni tanto ci scappava qualche bestemmia o qualche piccolo scappellotto. 
Il gelato così prodotto era venduto la domenica sul posto. Una parte tuttavia andava su un carretto attrezzato da banco da gelataio, tirato da un cavallo che mio zio Pepp portava in qualche paese vicino, in particolare in occasione della festa patronale. Poiché il gelato si faceva a quei tempi solo d’estate (d’inverno c’era da pensare a come riscaldarsi, altro che mangiare gelato come si fa oggi per contrastare l’eccessivo riscaldamento degli edifici) io ero quasi sempre presente. Le mie vacanze le passavo a Villa d’Adda. E se la domenica lo zio Pepp armava il carretto per andare a vendere il gelato fuori paese, io saltavo sul carretto con lui. 
Fu così che conobbi Pontida e lo spiazzo che vede ora i festival della Lega, ben prima di Bossi. Ricordo l’atmosfera gioiosa della festa, il viale con i platani che portava ad una chiesetta, i banchetti con cianfrusaglie varie e quelli con le carabine ad aria compressa per sparare a degli innocenti tondi gessetti.
Il gelato si vendeva o in coni o tra due parigine piatte. Ricordo la macchinetta che serviva allo scopo. Si metteva una parigina sul fondo di un vano parallelepipedo si riempiva il vano di gelato poi si copriva con un’altra parigina. Un piccolo pistone manovrato dal manico che reggeva il tutto spingeva fuori quello che oggi si chiamerebbe sandwich di gelato tra due parigine. Peccato che più non usi servire così il gelato. 
Per conservare il gelato nei cilindri sul carretto occorreva disporre di molto ghiaccio. Fu un'altra occasione per il piccolo Luciano di aumentare le sue conoscenze tecnologiche, in particolare di termodinamica. Il venerdì pomeriggio uno degli zii partiva con il carretto per andare a ponte San Pietro un paesone vicino a Bergamo dove era una fabbrica di ghiaccio. Naturalmente seguii lo zio più di una volta. Ricordo la fabbrica. Uno stanzone vuoto dove si entrava con il carretto ed il cavallo e dove c’era già un bel fresco. Qualcuno usciva da una porta con un enorme parallelepipedo di ghiaccio sulla spalla coperta da un sacco. Uno alla volta i blocchi di ghiaccio venivano posti sul carretto e separati uno dall’altro da dei sacchi. Per evitare che s'incollassero, rispose lo zio alla mia curiosità. Dietro la porta da cui uscivano i blocchi si vedevano macchinari strani, tubi che salivano e scendevano, un rumore di stantuffi. Chissà se lo spirito di Carl von Linden, l’inventore delle macchine per il freddo aleggiava là intorno. Forse sì, visto che l’immagine del gelato e del processo di fabbricazione mi seguirà anche da grande.

Ghiaccio, progresso tecnologico e brevetti

Forse è per quel ricordo del gelato fabbricato in casa del nonno che ho dato retta, tanti anni dopo, ad un ricercatore che lavorava al Centro Ricerche da me diretto, quando mi propose di investire soldi e risorse per produrre del gelato metallico, descrivendomi le meraviglie della tixotropia per aumentare le caratteristiche di resistenza delle leghe d’alluminio da usare nelle testate dei motori. Il piccolo Luciano, senza saperlo, aveva assistito ad un processo di trasformazione denominato tixotropia. Durante la fase di solidificazione, l’azione di rimescolamento continuo operato dalla pala dell’albero motore del-la gelatiera e completato dallo zio con la pala di legno, rompeva i cristalli di ghiaccio impedendo che crescessero troppo. Quei micro-cristalli rimanevano tali anche dopo, anche se, come si fa oggi, si mette il gelato nel freezer e lo si estrae dopo parecchio tempo. La tixotropia impedisce che diventi tutto un blocco di ghiaccio. Ma io allora non sospettavo che stessi assistendo ad un complesso processo fisico-chimico dal nome greco. E penso che non lo so-spettassero neanche i miei zii.
 Un altro legame con il gelato, anzi con il ghiaccio, lo ebbi da grande in America. Stavo seguendo in un'estiva località del New England un corso di technological forecasting (in italiano, previsioni tecnologiche, suona meno suggestivo). Lo studio del passato, d'esempi storici di sviluppo di tecnologie, serviva per insegnare a fare previsioni. Il tutto infiorato da banalità o spirito-saggini americane del tipo: è difficile fare previsioni specialmente sul passa-to. Oppure, lo sviluppo di una nuova tecnologia richiede 10 % d’ispirazione e 90% di sudore. Detta così non fa ridere, ma se pensate che in inglese sudore si dice perspiration… Tra i vari esempi vi fu quello del ghiaccio. L’America è un continente che si estende dai freddi polari ai caldi tropici. Nei paesi del Nord come il Canada ed il New England non era difficile realizzare delle ghiacciaie per conservare meglio i cibi nella stagione calda. Bastava racco-gliere la neve che scendeva abbondante d’inverno ed accumularla in qualche grossa buca in cantina. Ma in Florida o nella Carolina, dove andavi a prendere la neve? Allora la creatività si mise all’opera. D’inverno si segavano dei blocchi di ghiaccio dalla superficie dei numerosi laghi ghiacciati dei dintorni e si spedivano i blocchi nei paesi del Sud su velieri specializzati a quel trasporto. E poiché il mercato va curato, sviluppato, la merce resa affidabile e co-stante di qualità, la forma dei blocchi venne standardizzata, doveva avere spessore e lunghezza costante. Ma siccome il freddo varia da inverno ad in-verno non sempre lo spessore del ghiaccio era quello desiderato. Così l’inventiva umana tornò ad intervenire. Se lo spessore era sottile s’innaffiava il lago per far crescere il ghiaccio. Tutto questo darsi da fare sviluppò occu-pazione e commercio. Ma poi arrivò Carl von Linde, arrivò il progresso tecnologico con la fabbrica del ghiaccio. Il commercio sparì, molta gente perse la-voro nel Nord, i velieri dovettero andare a caccia di balene con il capitano Achab. In compenso nel Sud nacquero delle fabbrichette come quella di Ponte San Pietro. Un po' di lavoro per loro.
In Italia il progresso tecnologico doveva rispondere anche alle esigenze dell'autarchia. Anche gli animali furono chiamati a contribuire allo sforzo comune. All’appello risposero le mucche di mio nonno donando il latte alla patria. Lanital, la lana artificiale derivata dal latte, brevettata nel ‘36, fu messa in commercio un paio d’anni dopo e propagandata con grande fanfara patriotti-ca. Mia madre, sensibile al richiamo dell’amor di Patria, sferruzzò un golfino celeste per mia sorella Lia. Era bello a vedere. Purtroppo Lia pensò di mette-re subito alla prova la qualità della lana derivata dal latte. Anticipando gli spot TV sui detersivi, sporcò il golfino. Dopo il lavaggio con acqua e sapone - non c’erano allora né omini bianchi né blu - le maniche arrivavano quasi a terra, il lucido del pelo s’era perso. Lia rifiutò di metterlo. 
Non per questo la tecnologia fascista arrestò il processo di ricerca di nuovi materiali. Ed arrivarono anche nel settore delle biciclette. Non più ma-nubri, pedivelle, mozzi d’acciaio, ma d'una nuova lega a base di stagno, lo zama. L’acciaio serviva per i carri armati o per gli otto milioni di baionette. Un vantaggio dello zama rispetto all’acciaio era che non andava nichelato o cromato, perché non si arrugginiva. L’aspetto era tra l’alluminio e lo stagno. Tuttavia c’era un problema, a parte l’aspetto estetico poco soddisfacente se paragonato all’acciaio cromato o anche solo nichelato. Se ti capitava di andare su una buca con la ruota e di cadere per terra, ti ritrovavi con mezzo ma-nubrio in mano. Qualche cliente spiritoso veniva nel negozio di mio padre spingendo a mano la bicicletta infortunata, dicendo che era stato lui, il sciur Ugo, ad inventare lo zama. Chissà quanti soldi faceva con tutti quei manubri da cambiare. Se il cliente aveva difficoltà ad affrontare la spesa del manubrio nuovo, mio padre tirava fuori tutta la sua capacità inventiva e riparava il ma-nubrio. Infilava un pezzo di tubo tra i due tronconi e lo fermava con dei ribat-tini. Lì almeno, dove era la giunta, non si sarebbe rotto più.
Mio padre tuttavia rimpiangeva i tempi in cui i materiali non erano un problema e lui aveva potuto costruire biciclette da corsa superleggere. Si vantava di averne costruito una che pesava otto chili, mentre una bici normale ne pesava venti. Quelle da corsa in commercio ne pesavano tredici-quattordici. La sua ultra-leggera, realizzata con telaio d'alluminio, l’aveva da-ta ad un corridore perché partecipasse alle gare domenicali propagandando le biciclette costruite da lui. Allo scopo aveva fatto ricamare a grandi lettere sulla maglietta del corridore la scritta Cicli GIOIA, Vimercate. Gioia era la marca scelta da mio padre forse anche per l’assonanza con Gloria, marca al-lora famosa di biciclette. Nonostante la leggerezza della bicicletta su cui cor-reva, il corridore della scuderia di mio padre (era l’unico cavallo della scuderia) non vinceva mai. Anzi, non terminava neanche mai la gara. Succedeva sempre qualche guasto alla bici. In particolare si rompeva quasi sempre la catena. Mio padre insospettito, una domenica seguì la corsa. Scoprì così l’atleta fermo sul ciglio della strada, sudato e stanco, alle prese con la catena per spezzarla. Fu licenziato in tronco. La scuderia chiuse. I cicli Gioia si con-tinuarono a vendere per la qualità ed il prezzo, non perché vincevano le gare. Le etichette adesive che mio padre incollava sul telaio, le ha ritrovate mio nipotino frugando in un vecchio cassetto. E le ha incollate con grande soddisfazione della nonna sulla parete del frigorifero: Cicli Gioia, Vimercate. 

Mio padre non smise mai di cercar di migliorare il prodotto bicicletta. In fondo lui era un inventore. Aveva sempre qualche idea brillante per la testa. Con scarsa partecipazione di mia madre che vedeva solo il lato negativo del tanto lavorare per inventare nuove idee e brevettarle. Il tempo dedicato a fare dei prototipi era tolto a lavori più produttivi, le spese per il brevetto erano considerevoli. Tuttavia lo spirito avventuroso e veneto ebbe una bella rivincita sul conservatorismo bergamasco di mia madre. Riuscì a prendere un bre-vetto che rendeva molto più affidabile il freno delle biciclette sportive. Vendet-te il brevetto per la bella cifra di cinquemila lire. La radio diffondeva la canzone Se potessi avere mille lire al mese.
Mio padre non era il solo di quei tempi ad avere il pallino delle invenzioni. Altri in giro per il mondo si danno da fare in quegli anni per creare prodotti nuovi. Nel ’36 in Germania viene collaudato un elicottero. Nel ’37 l'inglese Whittle costruisce il primo motore a reazione. Nel ’38 in America entra in funzione il Boeing 307, un quadrimotore pressurizzato. Nel ’39 in Gran Bretagna diventa operativo il radar. 

Preso dall’euforia del successo del freno, mio padre inventò un cambio per bici da corsa. Purtroppo l’idea l’aveva avuto anche un altro, sempre veneto, che riuscì a brevettare un’idea quasi identica un paio di mesi prima di lui. Spionaggio industriale? Mio padre anche vent’anni dopo, ogni volta che vedeva una bicicletta con il cambio Campagnolo, ormai diventato uno stan-dard, non poteva trattenersi dal dire: “Se fossi arrivato due mesi prima, sa-remmo diventati milionari.” Aveva quasi preso la fortuna per i capelli e gli era sfuggita. 
Tuttavia non si scoraggiò. Mirò più in alto, con obiettivi più ambiziosi. Non migliorare dei componenti della bicicletta, ma inventare una bicicletta del tutto nuova. Costruì un prototipo del mostro. Aveva due pedivelle lunghe un metro che venivano azionate a moto alternativo e non più circolare. Un insieme di manovellismi trasmetteva il moto alle ruote. L’idea di base era sem-plice. L’aveva avuta già Archimede. Ma allora non c’erano biciclette, così Ar-chimede pensò di spostare il mondo. Gli mancava però il punto d'appoggio. A mio padre, molto più terra terra, mancarono i soldi per sviluppare l'invenzione. Comunque, sia ad Archimede che a mio padre restò la leva. Le due pedi-velle d’acciaio, realizzate alla forgia e lunghe un metro girarono a lungo per la bottega e ci seguirono anche in Toscana. Erano due formidabili leve usate per gli interventi più impensati. Qualche anno fa vidi un servizio alla televisio-ne su una bicicletta rivoluzionaria inventata da due danesi. Mi ricordava pro-prio quella di mio padre almeno per quanto si riferisce alle lunghe pedivelle ed al moto alternativo. Ma anche questa reinvenzione non sembra aver avuto molto successo. O non ancora. 
Un altro oggetto che suscitò l’ammirazione di molti per l’abilità con cui venne realizzato, fu una seggiola a rotelle per mia nonna bloccata a letto per una paresi. Prese una poltrona, la attorniò di un telaio su cui dispose due ruote laterali di bici grande ed una terza ruota di bici piccola messa dietro e girevole. Ma l’esploit tecnologico arrivò quando dovette piegare a circolo due tubi d’ottone che saldati alle ruote dovevano servire come passamano per farle girare. Come piegare dei tubi dritti secondo una circonferenza senza produrre grinze nel piegarli? Inutile dire che Luciano era tutto attento a seguire le varie fasi del progetto, sia perché doveva servire per dare mobilità alla nonna Antonietta, sia per la curiosità di vedere come andava a finire. Così Luciano imparò un trucco per piegare un tubo senza fare pieghe. E’ vero che da allora non ebbe più occasione di usare il trucco, ma, come si dice… impara l’arte e… Ecco la ricetta. Si compera della pece greca. Allora bastava an-dare dal ferramenta. La pece greca viene fatta fondere in un pentolino. Si tappa il tubo d’ottone da una parte mentre dall’altra si versa la pece liquida fino a riempire il tubo. La pece si solidifica. Ora si può piegare il tubo lungo qualsiasi contorno desiderato ed il tubo si piegherà senza fare una grinza. Poi si riscalda il tubo e la pece, ridiventata liquida uscirà dal tubo e può essere ricuperata per altre operazioni.
Quanti ragazzi dell’età d'otto – nove anni possono vantare di avere as-sistito ad un processo tecnologico così interessante? 

Lo zio Luis detto il Toletta, abitò da solo fino alla morte cinquant’anni dopo, nella vecchia casa di villa d’Adda, rimasta tale e quale come ai tempi della nonna. Il giorno delle esequie nello stanzone che precedeva la stalla, attaccata ad un gancio al soffitto, mascherata da fitte ragnatele era là, lei, la poltrona a rotelle, con i tubi d’ottone attaccati alle ruote lisci e senza una grinza. 

Lavoro minorile

Io non partecipavo granché alle invenzioni. A me erano riservati compiti molto più di routine, ad esempio riparare gomme bucate o pulire ed oliare biciclette sporche. E poi dovevo andare a scuola. Poi dovevo giocare. Inoltre, secondo mia madre, non avevo molta attitudine al lavoro manuale. Se mio padre mi dava da limare un qualche pezzo chiuso nella morsa, e poi lui se n’andava alla chetichella per qualche affare urgente al bar da Emilio, mia madre dalla cucina capiva subito che la musica era cambiata. Al violino non vi era più Paganini, ma uno che raspava sulle corde. Più o meno quello era l’effetto che facevo io, secondo lei, quando limavo. Il padre-Paganini veniva così colto in fallo per quelle sue brevi scappatelle al bar. Io in compenso rice-vevo uno scappellotto, perché non avevo ancora imparato come si tiene la lima. 
Le cose che racconto, dette oggi, sarebbero da telefono azzurro. Io a-vevo sei anni quando cominciai a fare il garzone part-time nella bottega pa-terna. I cicli GIOIA oggi verrebbero boicottati, perché realizzati sfruttando il lavoro minorile. Altri tempi, allora. Io ero considerato un esempio di bravo ra-gazzo che non solo studiava, ma aiutava il babbo in bottega. E poi, a dire il vero, il regime non era così ferreo. Ci scappava la mancia di qualche cliente impietosito. Vi erano pause, vi era la possibilità che il babbo ti facesse qualche giocattolo, come il famoso triciclo.
La bottega era una grande sala cui si accedeva da una porta a vetri pu-re molto grande. Sulla stessa parete della porta vi era una vetrina. Biciclette nuove erano appese lungo due pareti, quella di destra in cui vi erano le porte che davano nella cucina e nel tinello e quella di fondo in cui vi era la porta che dava nelle camere. Sull'altra parete un grande scaffale a vetri pieno di componenti e pezzi per biciclette con di fronte un bancone di legno. Sui muri dietro le bici si vedevano dei cartelli pubblicitari. Uno soprattutto colpiva la fantasia di Luciano Un ragazzo in bici con le gambe larghe che correva felice, evidentemente in discesa, e, sotto, la grande scritta PIRELLI. 
Finito di mangiare Luciano cercava di sgattaiolare dalla cucina nella bottega e da qui, dalla porta principale, fuori. Suo padre, se non vi era qualche cliente che magari stava trattando l'acquisto di una bici o di un copertone nuovo, era di là nel locale dell'officina e lui poteva pensare di svignarsela senza farsi notare. Come quella volta, tornato dal fare una commissione dal salumiere. Dopo che si era soffermato sulla spranga del portone a fare una capriola, riuscirà a raggiungere gli amici che urlano nella seconda corte? 
Era da là che filtravano delle voci interessanti per Luciano. Voci fanciul-le con risa e grida. Decise di terminare l'esercizio (che da grande ripensan-doci avrebbe definito come una variante brianzola dello yoga), per avviarsi da quella parte. Purtroppo per lui, proprio in quel momento suo padre si affacciò sulla porticina della bottega che dava nel cortile: "Ah, sei là tu. Se hai smesso di svolgere i compiti, vieni qua. C'è una gomma forata da riparare."
Anche se di malavoglia, il lavoro andava fatto. Non si discuteva nem-meno. Si poteva temporeggiare, sì, trovare qualche scusa per rimandare. Ma alla fine andava fatto. Tanto valeva allora farlo subito. Più presto si sbrigava, più presto avrebbe potuto raggiungere quelle voci. Tanto più che Attilio doveva essere anche lui ancora in casa, a sentire dalle urla della madre che si lamentava, perché aveva sporcato d’inchiostro il quaderno. Attilio non era certo un genio a scuola e fare i compiti a casa era dura. 
Luciano vide subito la bicicletta che abbisognava del suo intervento. Era quella bici da donna con la gomma davanti a terra appoggiata al muro. La prese, la rovesciò tenendola dritta con il sedile ed il manubrio appoggiati a terra. Poiché era un modello sportivo, la cosa più semplice per riparare una foratura era di togliere la ruota. Bastava svitare i due dadi galletto e la ruota usciva dalla forcella. Si sarebbe potuto farlo anche senza togliere la ruota, ma poi era più difficile esaminare la camera d'aria per trovare il foro. Se fosse stata la ruota posteriore di una bici con carter allora smontare la ruota sarebbe stato troppo difficile, e la riparazione andava fatta con la ruota al suo posto. Meno male che era la ruota davanti di un modello sportivo. Tutto molto più rapido e semplice. 
Tolta la ruota, Luciano prese i tre ferri fatti apposta (tecnicamente si dovrebbero chiamare estrattori, ma tutti lì a Vimercate capivano se si diceva semplicemente i ferri. Se da grande avesse fatto il chirurgo chissà se avrebbe adoperato gli stessi ferri?) Agendo tra il cerchio ed il copertone riuscì a sollevare quest'ultimo fino a farlo uscire dal cerchio. Poi con la mano a poco per volta estrasse la camera d'aria. 
Nel frattempo, Attilio doveva avere finito i compiti. Si sentì aprire la por-ta della sua cucina, l'unica stanza che avessero al pian terreno, stretta e lun-ga. Attilio, si fermò a guardare dalla parte di Luciano. Non parlò, ma visto che era impegnato, si girò dalla parte opposta e sparì verso le voci. 
Luciano gonfiò la camera d'aria, la fece passare, un tratto per volta te-nuto teso tra le due mani, dentro una bacinella d'acqua, fin che dalla gomma emerse un filo di bollicine. Con una matita copiativa che si trovava sempre da qualche parte, e che inumidita con la lingua vi lasciava indelebili segni viola, fece un circoletto attorno al foro. Poi passò di nuovo tutta la gomma per es-sere sicuro che quello fosse l'unico foro. Asciugò con la manica della maglia la gomma attorno al punto segnato, prese un pezzo di carta vetrata e grattò la superficie attorno al foro. Un po’ di mastice attorno, e poi l'attesa di un mi-nuto. Nel frattempo con la forbice ritagliò una pezza pregommata, dandogli forma tonda. 
Le voci, ora che si era aggiunto Attilio, arrivavano più forti e stimolanti. Luciano aveva fretta di finire, ma il lavoro andava fatto bene, altrimenti c'era il rischio, dopo aver rinchiuso il copertone e gonfiato la gomma di trovarla a terra di nuovo dopo qualche minuto. Così, messa la pezza sul foro, rigonfiò la camera d'aria e la esplorò di nuovo nel catino, tratto a tratto, tutta, per esser sicuro che non vi fossero altri fori. Poi con la mano passò in rassegna l'inter-no del copertone. Aih! Il chiodo c'era, e l'aveva sentito. Non era un chiodo, ma una puntina da disegno. Com'era finita in strada? Qualche stupido scherzo di ragazzino nascosto poi da qualche parte a vedere la rabbia del ciclista appiedato con la ruota a terra? Ed alla fine era lui, Luciano, che ci andava di mezzo, che doveva perdere del tempo per riparare la foratura. 
Tolta la puntina, riesplorato tutto il copertone, per essere sicuro che non vi fossero altre magagne, inserì la camera d'aria. Prima la valvola nel foro del cerchio, poi con la mano distendere bene la camera fino a che fosse tutta inserita senza pieghe tra il cerchio ed il copertone. Poi a poco per volta, si chiudeva il copertone nel cerchio. Molto facile fino a che ne rimaneva un pezzo lungo una spanna. Qui bisognava fare un bello sforzo con il palmo del-la mano. E non sempre ci riusciva. Anche quella volta. Sfogò la sua contra-rietà, dando un calcio ad uno dei piccoli ciottoli di fiume del selciato che da quella parte della corte era un po’ sconnesso. Il sasso rotolò fino verso il tombino che raccoglieva le acque piovane proprio al centro della corte. Poi, con la ruota in mano entrò nell’officina dove suo padre aveva finito di limare. Stava ora usando il martello di legno per far entrare un rinforzo all'interno di un tubo tranciato di un telaio di bicicletta. Probabilmente il telaio si era piega-to a causa di un qualche scontro del ciclista. Per ripararlo aveva dovuto pri-ma segare il tubo, poi raddrizzarlo e poi vi doveva infilare uno spezzone di tubo all'interno per fare da ponte ai due tronconi prima di saldarli uno contro l'altro. Si spiegava così quel gran limare di prima. Aveva limato lo spezzone di tubo per ridurne il diametro e riuscire a farlo entrare, cosa che ora faceva con la mazza di legno. 
"Papà, non ce la faccio a chiudere il copertone sul cerchio. Prova tu." Il babbo posò la mazza di legno, prese in mano la ruota, l'appoggiò in piedi contro il banco tenendola ben ferma sotto l'ascella, poi con il palmo della mano destra, con due colpi secchi riuscì a far saltare l'ultimo pezzo di coper-tone nel cerchio. In parte perché era più forte, ma forse ancor di più perché era più esperto. "Salame, hai visto come si fa?" E ritornando la ruota al figlio, non mancò di dargli un piccolo scappellotto sulla testa, più carezza, invero, che scappellotto. 
Gonfiata la gomma con la pompa a stantuffo, messa la ruota nella for-cella, ben stretti i dadi a galletto, rimessa in piedi la bici ed appoggiatala al muro, Luciano senza più esitare e senza chiedere permessi al babbo, si avviò finalmente verso le voci, le grida e le risa. In quel momento da dentro ca-sa si sentì la mamma che urlava: "Luciano, Luciano! Ti sei dimenticato il salame cotto...!" Luciano non sentì o fece finta di non sentire e sparì nel tunnel che univa il primo cortile al secondo.
I lavori in officina diventavano via via più impegnativi man mano che Luciano cresceva. Per esempio, lo era quello di cambiare una molletta all’interno della ruota libera nel mozzo della ruota posteriore. Era una piccola molletta in acciaio che doveva tenere tesa una piccola leva che s’ingranava in appositi solchi se si spingeva in avanti i pedali, mentre lasciava libera la ruota di girare a pedali fermi. La ruota libera era stata una grande invenzione per la bicicletta rispetto alla ruota fissa che resisteva ancora nelle piccole bici per bambini. Ma quella molletta ogni tanto si rompeva. Ed allora occorreva smontare la ruota libera, togliere le sfere e i rulli cilindrici distanziatori, rifare una molletta usando un filo d'acciaio, rimontare il tutto senza perdere sferette e rulli, e poi verificare che la funzionalità fosse ripristinata. Lavoro impegnativo anche per un ragazzo che non avesse altre idee in testa, come quando gli arrivava l’eco delle voci e delle grida dei ragazzi dalla corte. 
Un lavoro ancora più impegnativo era quello di montare delle ruote par-tendo dal mozzo, dai raggi, dal cerchio, dalle rondelle e dai nipples. I raggi si comperavano in pacchi neri simili a quelli azzurri degli spaghetti e contene-vano una grossa, unità inglese che significava dodici dozzine e che era rima-sta in uso come i pollici per indicare la dimensione della ruota, 28 per le bici da uomo, 26 per quelle da donna, giù giù fino a 14 per le bici da ragazzino come quella di Luciano. Forse il Fascio, che aveva dato la caccia agli inglesi-smi ed al Lei (un germanismo più che un inglesismo) non aveva considerato degno d'interesse il mondo della bicicletta. Così gli inglesismi lì erano so-pravvissuti. I raggi, inseriti prima nei fori del mozzo, andavano intrecciati tra loro, le rondelle messe tra raggio e interno del cerchio prima di avvitare il nipples al raggio. Se ti dimenticavi una rondella, poi papà se ne accorgeva e lo scappellotto era inevitabile. Luciano diventò presto bravo ed affidabile. Tuttavia, il tocco finale, quello di stringere forte i nipples (ma senza fare uscire il raggio dalla testa tonda del nipples perché si sarebbe rischiato di forare la camera d’aria), e di assicurare che la ruota fosse ben rigida e centrata, non lo imparò mai. Forse anche perché suo padre volle sempre essere lui a farlo. Faceva più in fretta, diceva, che a dover riallentare tutti i nipples per cercare di raddrizzare la ruota che ondeggiava ostinatamente quelle volte che Lucia-no aveva cercato lui di fare il lavoro di finitura.
Compiti impegnativi venivano affidati a Luciano per andare a prendere pezzi di ricambio dai grossisti. Quando richiesto, almeno una volta alla setti-mana, al pomeriggio, finiti i compiti, inforcava la sua biciclettina, ruote da 14 pollici, e pedalava per i sei chilometri che separavano Vimercate da Villa Santa dove era un grossista e tornava con una sporta attaccata al manubrio e piena di pezzi comperati. Il negozio era proprio davanti al cancello d'in-gresso del parco Reale di Monza. Luciano sarebbe stato tentato di varcare quel cancello e di inoltrarsi per i viali alberati del parco, ma non c’era tempo. Occorreva ripedalare in fretta a casa. 

Qualche volta capitava in negozio anche una motocicletta da aggiustare. Le competenze motoristiche di mio padre erano limitate, ma sufficienti per fare qualche intervento anche sulle moto. In particolare se il padrone della moto era un suo affezionato cliente e l’aveva visto all’opera ed apprezzato nel riparare le biciclette. In quei casi, se si trattava di una moto Gilera, Lucia-no inforcava la sua biciclettina e percorreva i quattro chilometri che separavano Vimercate da Arcore dove era lo stabilimento e dove si potevano anche comperare pezzi di ricambio, come stantuffi, pistoni, fasce elastiche, valvole, candele. Andare ad Arcore, alla Gilera, riempiva d’orgoglio il piccolo Luciano. Poteva raccontare agli amici che lui sapeva dove si fabbricavano quelle belle moto che tutti i ragazzi ammiravano. Specialmente, quando ferme per una breve sosta, il motore continuava a rimanere acceso ed il volano cromato a girare con regolarità. Vi era rivalità notevole in giro tra chi possedeva - ed anche tra chi si limitava a guardarle - la Guzzi e chi la Gilera. Luciano teneva per la Gilera per le ovvie ragioni di cui sopra. Lui ad Arcore, alla Gilera, ci andava. Ma doveva convenire che il volano della Guzzi era più grande, più in mostra, dava un senso più possente di forza e regolarità. 
Avrebbe più tardi avuto un’altra ragione per vantare quelle sue pedala-te fino ad Arcore. Lui là c’era stato, lui quelle ville della Brianza le aveva viste ben prima che il Cavaliere rendesse famoso Arcore avendo scelto dimora in una di quelle Ville cui Luciano era passato davanti tante volte. Anzi, se lui fosse stato nei panni del Cavaliere e mettendo a frutto le sue esperienze gio-vanili avrebbe scelto la villa di Verderio Superiore, una grande villa settecentesca che Luciano aveva sempre ammirato quando pedalava per andar a Villa d’Adda dai nonni. Anche perché la villa era in cima ad una salita e là Luciano faceva una breve sosta per riprendere fiato. E nella sosta non poteva fare a meno di soffermarsi ad apprezzare il grande anfiteatro pieno di statue che portava in leggera salita all’ingresso della villa. Di quella villa di Verderio, Luciano si ricorderà da grande, non per comperarla, ma perché con degli a-mici universitari avrà bisogno di grandi bambù per realizzare degli economici mobili per l’alloggio che condividevano a Milano. Nel parco della villa vi era un bosco di quei bambù, ed una sera.. ma questa è un’altra storia.
Il viaggio più impegnativo che il giovane apprendista Luciano faceva su richiesta del padre era a Monza, nove chilometri da Vimercate. Vi era anche un vecchio tram, il gamba de legn che univa Vimercate a Monza. Ma Luciano pedalava. Scopo delle frequenti missioni era portare dei telai di bicicletta usa-te a far riverniciare a fuoco e delle pedivelle, mozzi, cerchi usati ed arrugginiti a far cromare o nichelare. A quei tempi chi possedeva una bici ne capiva il valore. Poiché le bici non sono eterne, ad un certo punto si pone il problema di sostituirle. Vi era tuttavia allora un’alternativa meno costosa, se la bici non era proprio in stato comatoso. Era quella di rinnovarla. Si rimetteva a nuovo il tutto riverniciando il telaio, ricromando o rinichelando i pezzi d'acciaio. L’alternativa tra cromatura e nichelatura era solo questione di soldi. La cro-matura, dava un aspetto più elegante e lucido alla bici rinnovata, ma era più costosa. Un’ulteriore alternativa che aumentava leggermente il costo era se filettare o meno il telaio riverniciato. Luciano spendeva una parola, se poteva, in favore della filettatura, perché si divertiva a vedere come veniva fatta. 
A Monza, consegnato il materiale da rinnovare ed in attesa che gli preparassero da portare a casa quello portato in precedenza, si divertiva a guardare come procedevano le varie operazioni. C’era chi spruzzava i telai di vernice dopo averli bruciati e spazzolati per togliere i residui della vecchia vernice. I telai venivano appesi ad una catena che entrava in un forno, da dove usciva-no poi caldi e lucidi come nuovi. Se poi vi era da filettarli, un operaio addetto allo scopo, prendeva uno strano pennello fatto da due o tre lunghissimi fili. Strisciava i lunghi fili in un piatto in cui vi era della vernice d’oro o d'altro colo-re e con mano sicura e rapida passava i lunghi peli del pennello sul tubo del telaio che teneva fisso sotto le ascelle ed appoggiato ad un banco. E voilà, una filetto lungo e dritto abbelliva il tubo da un capo all’altro. Poi in rapida se-quenza ne faceva uno parallelo, chiudeva i due con un piccolo tratto dritto e due semicerchi. Poi passava su un altro tubo e così via. Qualche volta il cliente voleva due filetti di colore diverso, uno vicino all’altro. Magari spinto da amor patrio, sceglieva un filetto rosso ed uno bianco su un telaio vernicia-to di verde. Luciano ammirava estasiato la rapidità e la bravura dell'operaio. Mai uno sgorbio, mai un’incertezza nelle righe. C’era di che restare attoniti, sia lui che Attilio che riuscivano a riempire i quaderni di macchie d’inchiostro e cancellature. Lì invece tutto rapido, preciso, perfetto. I pezzi cromati o ni-chelati uscivano dal bagno elettrochimico ancora opachi. Venivano presi e passati attorno ad una spazzola di panno che girava rapida su un asse mos-so da una puleggia azionata da una cinghia di cuoio che scendeva dal soffit-to. A quell'epoca esistevano già i motori elettrici, ma in alcune officine era ancora rimasto il sistema centrale di un albero che girava al soffitto da cui pendevano cinghie di cuoio che alimentavano degli utensili. Un po' come ancora si faceva per collegare trattore e trebbiatrice durante la battaglia del grano. Il pezzo, pedivella o mozzo o cerchio, dalla spazzolatura usciva lucido e brillante, ancora un po' caldo. Un odore acido regnava nell’aria. Il telaio ri-verniciato veniva accuratamente avvolto con un rotolo di carta crespa come se fosse stato una mummia. Luciano caricava il telaio in spalla, metteva i pezzi cromati in una borsa e via di ritorno pedalando per nove chilometri fino a Vimercate. Era allegro e gli operai di ritorno a casa che lo sorpassavano con la loro più possente pedalata sulla bici da 28 pollici, si voltavano a guar-darlo sorridenti mentre lui cantava, anche se stonato, una qualche canzonci-na sentita alla radio. 
Luciano quindi non pareva soffrire troppo per dover lavorare alla sua età, oltre a giocare e studiare. Ma erano lavori lievi. Niente a che vedere con il mondo del lavoro descritto in Tempi Moderni di Charlot uscito nel ’36. 

Giochi, cultura e telefoni bianchi

Quel pomeriggio, riparata la gomma, Luciano si avviò nella seconda corte. Prima di salire al piano superiore del chiostro da dove venivano le gri-da, si fermò in fondo alla corte nella Ritirata. Scaricati gli umori liquidi, final-mente era pronto per salire di sopra. La scala con una ringhiera di ferro ave-va nel ripiano di mezzo una grande finestra che dava su quello che forse era stata la navata centrale della chiesa di cui la sua casa era l'entrata. La finestra aveva tutti i vetri rotti. Si poteva sporgere la testa stando attenti a non tagliarsi con le schegge ancora attaccate ai legni dei riquadri della finestra. Si vedeva un enorme stanzone il cui pavimento era più basso del porticato da cui iniziava la scala. In quell’enorme spazio vi erano detriti di tutti i tipi. Si di-ceva che fosse stato adibito a filanda e, forse, guardando bene tra i detriti si potevano distinguere, oltre alle macerie di mattoni e calce, pezzi di materiali di legno e ferro che tradivano l'ultima utilizzazione del posto. Da quella finestra era impossibile scendere e non si conoscevano altre entrate. Il cumulo di macerie e l'imponente strato di polvere che vi si era depositato, lo scorrazza-re indisturbato d’enormi topi, avrebbero in ogni caso tolto la voglia ai ragazzi di tentare di entrarci anche se fosse stato più facile. Ciò nonostante, ogni tan-to qualcuno di loro si fermava a guardare là dentro e a fantasticare un po’. 
Non quella volta però. Luciano salì di sopra di corsa. I ragazzi e le ra-gazze, d’età variabile tra i cinque e i dieci anni, stavano giocando nel lato più tranquillo del porticato, quello di fondo sulla sinistra. I passi sul pavimento a grosse liste di legno polverose e scheggiate, rimbombarono sovrapponendosi alle grida dei suoi amici. Stavano giocando a 'giramondo', quello della scacchiera disegnata per terra. I giocatori erano tutti esperti. Stavano facendo l’esercizio più difficile, quello con il sasso sul piede, attenti a non farlo ca-dere. 
Luciano fece un segno ad Attilio. Lasciar le bambine per fare con lui un gioco più maschile. Estrasse la mano di tasca con delle palline. Attilio capì, ma dovette aspettare che finisse il turno. Anche nei giochi di ragazzi le regole vanno rispettate. Luciano ed Attilio scesero al porticato di sotto. Il pavimento di legno era troppo scheggiato e polveroso e le palline scorrevano poco. Inoltre c’era il rischio che s’infilassero tra una e l’altra delle sconnesse tavole. Le palline erano normalmente di creta colorata. Vi erano anche palline di vetro con iridescenze interne da usare per bocciare. Le palline le vendeva il nego-zio di giocattoli proprio sulla strada di fronte. Bastavano pochi centesimi per quelle di creta. Quelle di vetro erano più care. Per fortuna c’erano le bottiglie di birra. Belle, care bottiglie di birra in vetro verde chiaro! Il collo terminava con un restringimento che tratteneva una sferetta di vetro. Faceva da tappo quando la pressione della birra la spingeva in alto. Mio padre ogni volta che alzava una di quelle bottiglie borbottava su chissà quanti soldi avrà fatto quello che aveva avuto l’idea, e l’aveva brevettata, della sferetta. Proprio delle giuste dimensioni per il gioco delle palline. Ma le bottiglie venivano riutiliz-zate. Per fortuna ogni tanto qualcuna cadeva per terra e si rompeva. Così nelle tasche dei ragazzi c’era sempre, oltre alla scorta di palline di creta an-che una o due palline di vetro verde chiaro. Ma Luciano aveva un’arma segreta. Delle sfere d'acciaio.
Si chinarono sul pavimento in pietra del porticato e diedero inizio al gioco. Erano nella parte più isolata del colonnato, dove nessuno disturbava. Ogni tanto una pallina rimbalzava contro il muro. Un pezzetto di uno scalcinato intonaco si staccava. Ogni tanto un grido di gioia per la pallina colpita. Ma non durò molto. Si udirono i richiami delle mamme. Arrivò anche qualche sorella più grande a raccogliere i recalcitranti. Era ormai ora di cena. Si mangiava presto in Brianza in quei tempi. Si andava anche a letto abbastanza presto. Forse per risparmiare energia elettrica. 
Di mala voglia Luciano ed Attilio terminarono il gioco. A casa trovò la mamma in piedi sulla porta ad attenderlo con in mano la borsa arlecchino. "Al solito, ti sei dimenticato qualcosa dal signor Brusa. Il salame cotto. Corri a prenderlo. Un etto. E di corsa, perché si va a tavola." E così Luciano rifece la stradina di sassi. Di corsa come gli era stato chiesto e non ebbe tempo o vo-glia di fermarsi a guardarsi in giro. Doveva inoltre prepararsi ai lazzi del sciur Brusa. 
Quella sera dopo cena il papà avrebbe letto ad alta voce, come tutti i venerdì, la Realtà Romanzesca. La lettura, compresi commenti ed interruzio-ni per chiarimenti, durava un'oretta. Poi Luciano e Lia a nanna. I due più piccoli erano già a letto. Troppo piccoli per far parte del cenacolo culturale della Realtà Romanzesca. 
Luciano tardò un poco a dormire. Forse era stata la lettura particolar-mente impressionante. Avventure di un alpinista che, rotta la corda mentre stava arrampicandosi solitario su una parete, sarebbe sfracellato senza speranze giù a valle se non fosse riuscito ad afferrare una radice di qualche vecchia pianta che era riuscita tempo addietro a far crescere un qualche cespuglio lassù. Quella presa sarebbe servita a poco, perché le forze lo avrebbero abbandonato se non fosse in tempo arrivato qualcuno ad aiutarlo a risalire lanciandogli una corda. Non vi era nessuno attorno, salvo i corvi. E proprio loro, realtà romanzesca, riuscirono a salvarlo per il grosso baccano che fece-ro ruotandogli attorno in tanti, sempre di più, gracchiando a più non posso. Finché qualcuno a valle, incuriosito dal fracasso, non guardò in su con un cannocchiale e vide l'omino appeso. Quella storia gli aveva dato i brividi. La sua mente era ora piena d’immagini, di crepe nelle rocce, di strane forme contorte di radici, di sagome nere volteggianti nel cielo. Ma non erano immagini mentali, no. Luciano le vedeva là, dipinte nel soffitto alto della grande stanza in cui tutti e quattro i figli dormivano. 
Sua madre diceva spesso al papà che era ora di ridare l'intonaco a quelle pareti, che si vedevano strane ombre d'umidità affiorare da tutte le parti e che anche le cannette su cui era stato appiccicato l'intonaco del soffitto cominciavano ad emergere dalla calce che si scrostava. Ma non vi era tempo né soldi per farlo. E poi non ci doveva pensare un po’ anche la padro-na di casa, la contessa Casanova, che da anni non faceva fare più nessun lavoro di manutenzione, mentre non si dimenticava di riscuotere tutti gli anni l'affitto? Così, per fortuna, le ombre e le crepe erano là ad eccitare la fantasia di Luciano in quella luce incerta dei lampioni della città che riflessa e rimbal-zata da chissà quante pareti, filtrava attraverso i vetri smerigliati della porta finestra che dalla camera dei ragazzi dava su un cortiletto interno. 

Con gli intonaci del vecchio convento Luciano avrà un’avventura, anni dopo. Nella parete di fondo del chiostro, quella in cui più volentieri giocavano a biglie, lo stato dell'intonaco non era certo migliore di quello della parete del-la stanza da letto. L’intonaco ogni tanto veniva ripassato con una mano di bianco. Ma gli strati successivi si staccavano qua le là con l’umidità. Si intra-vedevano strane forme sotto, velate dagli strati di calce. Per esempio sembrava evidente che ci fosse un arco che probabilmente nascondeva una porta murata. A quei tempi Luciano aveva altro in mente che guardare lo stato dell’intonaco e chiedersi cosa quelle ombre nascondessero. Ma quando ci ri-tornò in quei posti, a vent’anni, dopo l’interludio toscano, s’interesserà a quel-le ombre e scoprirà qualcosa. Se si va ora nella piazzetta San Lorenzo a Vi-mercate si trova un cartello giallo che avverte “affresco del XV secolo”. 

La mattina non c'era tempo per soffermarsi tra le coperte a ripensare i sogni notturni, ammesso che uno si ricordasse di aver sognato. La mamma arrivava con poco riguardo a togliere di scatto le coperte e, dando degli schiaffetti sul sedere: "Presto, presto dormiglione. E' tardi. Tua sorella è già quasi pronta. Farai tardi a scuola." Nel frattempo aveva vuotato il catino del lavabo di ferro addossato alla parete della stanza dell'acqua sporca della so-rella gettandola nel cortiletto. E con la brocca in mano ora riempiva il catino per lui. Un pezzo di sapone da bucato era là ad attendere che ne facesse uso. In quella casa si cercava di risparmiare su tutto, ma sul sapone i rimproveri per Luciano erano proprio il contrario. "E non cercare di risparmiarlo il sapone, come tuo solito. Perché non guardi come fa tua sorella..." Sempre lei, sempre la sorella, sempre ad essere d’esempio. Lei era più attenta, lei parlava in italiano e non in dialetto, lei non solo si lavava di più e meglio, ma inoltre non si sporcava mai... Bella forza! Lei non si mescolava con gli altri ragazzi e ragazze a giocare nella corte. Lei se n’andava appena finiti i compi-ti dalla sua amica Mariarosa, la figlia del ricco industriale. Di cosa giocassero le due ragazzine poi, chi sa. Giochi di bambole. Giochi che non sporcano né le mani né i vestiti. Infatti, quelle poche volte che la sorella si fermava a gio-care nella corte assieme ai ragazzi, ai loro giochi 'proletari', anche per lei quando rincasava c'erano problemi per lo sporco sulle mani, sui piedi, sui vestiti: "Ma come ti sei conciata oggi, cosa hai fatto, anche tu come tuo fratello..."
Il cortiletto, tre metri per due era circondato da mura così alte da farlo sembrare quasi una cameretta con il cielo per soffitto. Una finestrella, se uno si alzava su una sedia per riuscire a guardare fuori, dava sul gioco di bocce dell'osteria "da Basilio". Ma il gioco ed i giocatori si vedevano meglio dalla fi-nestra della cucina, senza bisogno quindi di arrampicarsi su quella finestrella. Nelle lunghe notti d'estate le grida, le imprecazioni dei giocatori, i canti degli ubriachi, passavano sopra gli alti muri giù nel cortiletto e da qui attraverso la porta finestra nella camera dove dormivano i quattro fratelli. Per fortuna d'e-state lui stesso andava a letto tardi dopo essersi fatto a lungo richiamare dal-la mamma, che "basta giocare, è proprio ora di andare a letto", così stanco che non faceva in tempo a sdraiarsi. Non erano certo le grida dei giocatori che avrebbero potuto svegliarlo. Forse quelle grida servivano ad innestare i suoi sogni su vie strane. Nelle mattine d'estate si svegliava con il ricordo di aver sognato, anche se non cosa esattamente. Forse era solo il caldo ed il molto rotolarsi nel sonno per trovare refrigerio che causava quel sognare.
Dalla camera si poteva andare in cucina dove la mamma aveva prepa-rato il caffelatte, o da una porta che dava nel negozio dove erano in mostra le biciclette nuove da vendere, o dal cortiletto. D'inverno il percorso era il primo, ma con la bella stagione si passava dal cortile. Anche perché qui era l'unico cesso della casa realizzato in un angolo ed a pianta triangolare. Quello che dava loro un segno di distinzione rispetto alle altre famiglie della corte. Nel-l'interno vi era una turca in cemento. Con la porta di legno chiusa, un po’ di luce entrava da un finestrino senza vetri di dieci centimetri per venti. Da un chiodo al muro pendeva un filo di ferro in cui erano infilzati dei pezzi di giornale tagliati a giusta misura. Il papà vantava quel cesso come una grande comodità rispetto a quanto si faceva in campagna quando lui era ragazzo: due assi traballanti sopra la letamaia. Ciclo diretto di trasformazione, senza intermediazioni. Il vanto era anche perché l'aveva fatto fare lui, col permesso della padrona di casa. "Anche senza andare in campagna, noi stiamo molto meglio di tanti altri qui vicino. Per noi è una gran comodità avere la latrina proprio in casa. Il tuo amico Attilio deve andare fino in fondo alla corte in quel cesso sempre sporco. Non è come qui che tua madre lo tiene sempre pulito come uno specchio. E' vero che i signori hanno dei gabinetti dove tutto é automatico... Chiedi un po’ a tua sorella come sono i gabinetti nella casa della sua amica Mariarosa"...  E quando era sul discorso non gli dispiaceva rac-contare la storiella del parroco. Da buon veneto ciacolon era sempre pronto a raccontare storie inventate, ma raccontate come veramente accadute al suo paese nella bassa padovana. Quel parroco, naturalmente del suo paese, era tutto preoccupato per organizzare la visita del vescovo per la cresima. Il vescovo avrebbe pernottato in parrocchia, e lì vi era una semplice latrina all'aperto, in fondo alla ringhiera. Il parroco che era stato in Curia aveva visto com’erano là i luoghi di decenza, sciacquone e rotoli di carta. Per cercare di fare qualcosa per migliorare il comfort della parrocchia diede quindi istruzioni al sacrestano di attendere nascosto dietro la latrina e quando il vescovo fosse entrato, con un bastone maneggiato attraverso la finestra con in cima una spugna cercare di aiutare il reverendo uomo a nettarsi, come se un braccio automatico fosse installato sul posto. Pare che il vescovo, incuriosito dalla novità, vi si rivolgesse poi con la faccia... L'umorismo era certo piuttosto grossolano, ma Luciano ed i ragazzini cui lui poi raccontava la storiella, ride-vano a quattro ganasce pensando alla scena. Seppi poi che la stessa storiella era raccontata nel monarchico Piemonte con riferimento ad una visita del Re. Si vede che il religioso Veneto aveva i vescovi come riferimento. 
Scene di vita domestica, allietata dalla radio che profondeva canzonet-te allegre. Voglio vivere così col sole in fronte cantava Rabagliati. Pochi avevano il telefono, ma quelli che si vedevano al cinema erano telefoni bianchi. Attori ben vestiti e con guanti che non indossavano, ma tenevano con non chalance chiusi in una mano, passavano da un salotto all’altro. Il bel Vittorio De Sica viaggiava sullo schermo su una Isotta Fraschini decapotable e piena di sospirose ragazze. A teatro trionfavano i lamenti amorosi di Due dozzine di rose scarlatte di Aldo De Benedetti. 
Gli operai ciclisti che ritornavano a sera dal lavoro dovevano scansarsi per lasciar passare le grosse auto dei gerarchi. 
A Roma, si inaugurava in quegli anni Cinecittà. E invece a Vimercate…
Era ancora giorno fuori, ancora i ragazzi giocavano nel cortile. Luciano li raggiunse. Stavano giocando a nascondino, ragazzi e ragazze, piccolini e più grandicelli. Era finito proprio allora un turno. Visto che lui entrava ora nel gioco, gli toccava fare la conta nella tana. Uno, due,... occhi chiusi, fronte appoggiata alla colonna che fungeva da tana... otto, nove, … quarantanove! Silenzio tutt'intorno. Dei ragazzi nessuna traccia, come se ne fossero tutti andati. Eppure si sentiva come del riso soffocato, del respiro sospeso. La ta-na era una colonna del portico della prima corte. Tutti i bambini dovevano essersi nascosti nella seconda corte, per lo più dietro le grandi colonne. Lu-ciano guardando a destra e sinistra cercava di vedere qualcuno, magari qualche pezzo di veste che uscisse da dietro le colonne. Ed, infatti, eccone una. T'ho visto, Enrica. E di corsa verso la tana a battere la presa, prima che Enrica, vistasi scoperta, riuscisse lei stessa ad arrivare alla tana e liberarsi. Ad Enrica, come la prima ad essere scoperta, se tutti gli altri fossero stati presi, sarebbe toccato fare il turno di tana. Se ne stava ora un po’ mogia vici-no alla colonna. Degli altri ancora nessuna traccia. Le regole del gioco erano che nessuno poteva nascondersi nelle case. Solo nascondigli nelle corti e per di più al piano terra. Luciano procedeva guardingo. Ecco uno scoppio di risa là in fondo al porticato di sinistra, dietro una delle grosse colonne. Lucia-no si avventura nel porticato di fronte cercando di vedere di chi si tratta, pron-to a correre verso la tana. Erano tre ragazze che a furia di ridere per stare at-taccate una all'altra in modo da essere nascoste dalla colonna, si erano spinte ed una era caduta per terra. Luisa, Carla, Renata! Tutte prigioniere. E di corsa a picchiare sulla colonna della tana. Mancavano all'appello due ragaz-zi, Luigino, più piccolo di lui ed Attilio. Per trovarli Luciano doveva inoltrarsi più a fondo nel secondo cortile con il rischio che uno dei due, nascosto più vicino, arrivasse per primo alla tana e liberasse tutti gli altri. Uno, due, tre, Luigino! Prigioniero! Mancava ora solo Attilio. Ma dove si sarà cacciato? Non avrà mica barato e si sarà nascosto nella sua cucina che stava proprio vicino alla tana nel corridoio tra i due cortili? Più guardingo che mai Luciano s'inoltrò nel porticato, guardando a destra ed a sinistra, ancora qualche passo avan-ti... Ma ecco, da dietro una colonna più vicina di lui alla tana, uscire come una freccia Attilio e correre. Uno, due, tre, tana! Tutti liberi! 
Così toccò di nuovo stare in tana, cercare di scoprire i nascosti ad uno ad uno. Quella volta ci riuscì, ed ora toccava stare in tana ad Enrica, anche questa volta la prima ad essere stata scoperta. 
Quanto poteva durare quel gioco? Anche delle ore. Qualche volta finiva male, qualcuno aveva barato nascondendosi dove era proibito. Ed allora e-rano discussioni accalorate, la squadra si divideva in due, chi parteggiava per l'uno e chi per l'altro dei contendenti. In ogni modo, anche per questo era uno dei giochi preferiti. E poi il posto, con tutte quelle colonne così larghe da nascondere facilmente uno o più ragazzi, era l'ideale. Quello di nascondino era un gioco tanto più interessante quanto più erano a giocarlo. Poi andava bene per tutti, maschi e femmine, piccoli e grandi. 
Quel pomeriggio il gioco sarebbe andato avanti fino a che le mamme avessero richiamato a casa i figli. Invece ad un tratto un urlo di due delle ra-gazze nascoste dietro ad una colonna fece correre tutti, ed uscire anche qualcuna delle mamme: "Un topo, un topo, ma grosso, grosso. E' andato lì dentro, lì dentro." Il posto indicato come rifugio ultimo del topo era uno di quelli proibiti come nascondiglio. Era lo sgabuzzino che faceva da rimessa per legna, carbone, vecchi mobili e tante altre cianfrusaglie del papà di Luciano. Questi, al sentire il fracasso, uscì dalla bottega con una ruota in mano. Al racconto dei ragazzi, lì tranquillizzò. " Questa sera ci metto una grande trappola con del formaggio. Domani vedrete il topo in trappola." 
Nel frattempo era suonata l'ora della ritirata. Tutti in casa...
La piazzetta venne attraversata dall’attacchino che tornava a casa con la sua bicicletta su cui dondolavano due secchi con i residui di colla e con i pennelli usati per attaccare i manifesti del prossimo film, Il signor Max, il film di Camerini dove De Sica portava in giro le sospirose fanciulle nella sua tor-pedo blu. Il film non era adatto per l’Oratorio. Si sarebbe proiettato sabato e domenica prossimi al cinema Garibaldi, quello peccaminoso, che non avreb-be esitato anche a programmare film dove si sarebbero potuti vedere i seni nudi di Clara Calamai nella Cena delle Beffe.